Pagamenti con la cassa vuota: l’accertamento “non fa sconti”
Per i togati di legittimità, la chiusura negativa di cassa rappresenta formalmente un'anomalia contabile, ma foriera di conseguenze che possono ben sostenere una rettifica del reddito
Roma – La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 7634 del 18 marzo 2021, ha stabilito che il saldo negativo di cassa costituisce presunzione di maggiori ricavi non contabilizzati.
La sussistenza di una cassa “negativa” manifesta un indice di pericolosità fiscale, che si concretizza in una contabilità inattendibile, proprio perché tenuta in maniera errata.
Al centro della vertenza vi era un atto impositivo, notificato a un contribuente campano, esercente attività di lavori generali di costruzioni di edifici, con cui l’ufficio accertava un maggior reddito d’impresa, in relazione ad un determinato anno di imposta, con recupero degli importi fiscali sui ricavi omessi.
In particolare, veniva valorizzata dall’amministrazione finanziaria l’effettuazione di pagamenti nonostante il “conto di cassa” risultasse privo di liquidità disponibile.
La Ctp di Salerno, adita dal contribuente, ne accoglieva l’impugnazione limitatamente alla ritenuta deducibilità dei costi, confermando per il resto la ripresa mentre la Ctr della Campania rigettava il successivo appello del contribuente.
Ricorso per cassazione
L’imprenditore proponeva, allora, ricorso di legittimità lamentando, anzitutto, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 39, lettera d), Dpr 600/1973 e dell’articolo 2697 cc, per avere la Ctr basato l’accertamento fiscale su una presunzione correlata al saldo negativo transitorio del cosiddetto “conto cassa”.
Inoltre, spostando la doglianza sull’omesso esame del fatto, il ricorrente insisteva che la Ctr campana avesse trascurato il fatto consistente nell’errore dell’Agenzia di presumere l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati sulla base di una mera imprecisione contabile.
Infine, opponeva che il giudice regionale non avesse contemperato che gli sconfinamenti erano stati ripristinati, i ricavi erano stati iscritti nel conto economico, il debito nei confronti del titolare della ditta era stato saldato e i pagamenti tramite anticipazioni erano ascrivibili a ritardi nella esazione dei crediti.
Nel rigettare il ricorso del contribuente, la Cassazione osserva che, nel caso di specie, era incontroverso che l’imprenditore effettuasse pagamenti ancorché il conto di cassa della ditta individuale fosse “in rosso” ed esibisse voci di spesa di entità superiore a quella degli introiti registrati.
Detta circostanza, infatti, era stata valorizzata dall’Agenzia delle entrate, in quanto sintomatica dell’esistenza di altri ricavi, non registrati.
Una chiusura di cassa con segno negativo, infatti, oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, assurge a presunzione di omessa contabilizzazione di guadagni.
Né è accettabile, da parte della Cassazione, la doglianza, avanzata dal contribuente, secondo cui si sarebbe trattato di una mera commissione, da parte sua, di un non meglio precisato errore contabile: il privato, infatti, non contestualizza né circostanzia l’argomentazione sul piano fattuale e cronologico, limitandosi ad ammettere per sommi capi “sconfinamenti durati soltanto alcuni giorni”.
Ugualmente inconferenti sono, a parere dei togati di legittimità, le circostanze rappresentate dall’avvenuto ripristino degli sconfinamenti nel conto cassa, dall’iscrizione dei ricavi nel conto economico, dal saldo del debito verso il titolare della ditta e nella ascrivibilità dei pagamenti tramite anticipazioni a ritardi nella esazione dei crediti.
Infatti, dalla decisione del collegio regionale, a parere della Corte di legittimità, emerge come dirimente agli effetti di un giudizio di inattendibilità complessiva della situazione contabile della ditta e della sussistenza di guadagni non dichiarati, l’elemento dell’incongruenza delle ripetute anticipazioni di cassa – quindi, “iniezioni” di liquidità – effettuate dal titolare dell’azienda a fronte della costante indisponibilità di cassa in capo alla ditta, siccome risultante dal relativo conto.
La sussistenza di una cassa “negativa” è indice rappresentativo di pericolosità fiscale, sostanziandosi in una contabilità inattendibile, proprio perchè tenuta in maniera errata.
Detta anomalia denota l’omessa contabilizzazione di attività pari almeno al disavanzo, come ha ritenuto la giurisprudenza di legittimità.
Con la decisione in commento, infatti, la suprema Corte dà corso a un orientamento consolidato, in base al quale, in casi come quello di specie, “sulla base del riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni dell’art. 54, co. 2, DPR 633/72, e dell’art. 39, co. 2, DPR 600/73, l’Ufficio non è tenuto a fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati” (cfr. Cassazione nn. 32812/2019; 25289/2017; 11988/2011).
Un saldo negativo di cassa costituisce, in definitiva, un indizio grave, preciso e concordante che sostiene l’attività impositiva erariale, sia effettuata ex articolo 39, comma 1, lettera d) che ex articolo 39, comma 2 (cfr. Cassazione n. 3580/2009), che genera l’inversione dell’onere probatorio, in capo al contribuente.